Don Carlo a Firenze

Firenze, teatro Comunale. Si rappresenta il Don Carlo nell’edizione in cinque atti, con la ricostruzione dello storico allestimento di Luchino Visconti. A metà del secondo atto il sipario si chiude per il cambio di scena. Mezze luci in sala, Zubin Mehta non abbandona il podio. Il sommesso scambio di chiacchiere in platea e nelle due gallerie si smorza all’improvviso quando un signore con un microfono in mano esce al proscenio e legge un comunicato che grosso modo dice: il teatro fiorentino censura con forza i tagli ai finanziamenti decisi dal governo e, piu in generale, la sempre minor considerazione che ricevono oggi la cultura e soprattutto il teatro d’opera. Ricorda che il teatro stesso è una casa che dà lavoro a centinaia di persone, le quali hanno deciso di rivelarsi al pubblico non con uno sciopero ma mostrando almeno una parte del lavoro che sta “dietro” lo spettacolo che sta andando in scena.
Il sipario si riapre e il cambio avviene a scena aperta. In pochi minuti decine di macchinisti demoliscono la gigantesca tomba di Carlo V nella chiesa di San Giusto e costruiscono al suo posto l’incredibile prospettiva del chiostro, dove Eboli dovrà intrattenere le dame della corte. E mentre giganteschi pilastri gotici si scoprono dipinti su tela e salgono al cielo, mentre calano le arcate del portico e i cipressi che si alzano nel fondo, mentre l’enorme cancellata d’oro che circondava la tomba viene assicurata a funi e fatta letteralmente volar via, scrosciano gli applausi di un pubblico stupefatto e solidale.
Questa imprevista divagazione nella rappresentazione è stata, al di là del suo significato primo e politico, una vera lezione di teatro, un momento che gli spettatori in sala ricorderanno per molto tempo. E, per di piu, incastonato in uno spettacolo straordinario.
Il Comunale di Firenze ha deciso di rappresentare, a giorni alterni e con due cast diversi, la versione in cinque atti e quella in quattro. Come al solito, quando si decide di rappresentare il Don Carlo si finisce sempre per combinare qualche pasticcio col testo utilizzato: evidentemente non basta decidere per una delle diverse versioni disponibili, da quella di Parigi, ovviamente in francese, in cinque atti e col ballo ma con brani eliminati da Verdi dopo la prova generale per accorciare la durata dello spettacolo, a quelle italiane: Bologna 1867, cinque atti col ballo, semplice traduzione in italiano della versione francese; Milano 1884, ridotta a quattro atti; Modena 1886, riportata a cinque atti ma senza ballo. Nel mezzo, altre modifiche apportate in occasione di una ripresa napoletana. Quella rappresentata a Firenze assieme alla versione di Milano (alla quale pero, se ho capito bene, è stata tagliata l’aria del tenore nel primo atto) è stata nella sostanza la versione di Modena ma con l’aggiunta, come si era fatto alla Fenice nel 1973 e alla Scala nel ’77, di due dei brani che Verdi aveva tagliato, solo per ragioni pratiche, prima della prima rappresentazione assoluta: il coro di apertura nel bosco di Fointanbleau e il grande concertato in morte di Posa. Brano a cui Verdi teneva evidentemente molto, visto che tolto dal Don Carlos divenne poi il Lacrymosa della Messa di Requiem. Queste contaminazioni fra versioni diverse mi lasciano sempre perplesso. Non sarebbe piu semplice e corretto decidere per una delle possibili versioni autentiche ed eseguirla sic et simpliciter? E, meglio ancora, non sarebbe ora che qualcuno si decidesse a mettere in scena il primo Don Carlos, quello che ando in scena una volta sola alla prova generale dell’opera?
Quante cose si capiscono vedendo, pur con tutte le sue inevitabili approssimazioni rispetto all’originale, questa ricostruzione di uno dei piu celebri allestimenti di Luchino Visconti! Intanto chi non ha l’età per averne fatto esperienza diretta si trova davanti all’immagine evidente di come si faceva spettacolo d’opera fino agli anni Sessanta, e con essa coglie la vera essenza del grande repertorio italiano, il suo essere manifestazione di una cultura popolare che nella grande mogeneizzazione/americanizzazione/standardizzazione di oggi non esiste piu.
Non è facile, adesso, abbandonarsi con atteggiamento “vergine” a queste scene dipinte, a questa assenza di sovrastrutture intellettualistiche, a questo gusto per l’oleografia, a questo modo di fare regia che ha soprattutto due obiettivi che i registi di oggi nemmeno prendono in considerazione. Il primo: concepire movimenti che rispettino le indicazioni del libretto e i suggerimenti dello spartito e raccontino la storia nella maniera il piu possibile chiara e coinvolgente. Il secondo: cogliere le potenzialità spettacolari del libretto e con lui (e non contro di lui o nonostante lui) costruire, per successive aggiunte, quei tableaux vivants che sono una delle caratteristiche drammaturgiche imprescindibili del grand-opéra. Nello spettacolo di Visconti i quadri finali della scena dell’autodafè e del carcere toglievano il respiro tanto erano belli. E realizzati grazie all’ammirevole padronanza della tecnica registica vera, quella che sa muovere e comporre le masse, che sa recuperare i riferimenti figurativi appropriati, che sa cogliere nel testo i suggerimenti per il proprio contributo senza la patetica pretesa di sovrapporre ad esso drammaturgie alternative spesso inconsistenti.
La realizzazione musicale è stata complessivamente di altissimo livello. Non posso purtroppo andare oltre un giudizio genericamente positivo sulla direzione di Zubin Mehta, poiché credo che la mia collocazione nella sala, proprio sopra la banda degli ottoni e le percussioni, abbia falsato parecchio la mia percezione del contributo orchestrale. Immagino che chi stava in posti meno infelici da questo punto di vista abbia sentito un’orchestra molto piu equilibrata di quanto non abbia sentito io.
Al vertice del cast la Eboli di Violeta Urmana e la Elisabetta di Barbara Frittoli. La prima ha un timbro sfarzoso di mezzosoprano unito a una incredibile facilità nel registro acuto che le ha guadagnato vere e proprie ovazioni dopo un trascinante finale di O don fatale. Barbara Frittoli ha una presenza vocale obiettivamente meno consistente, sia per volume che per bellezza del colore. Il personaggio, poi, deve attendere il quinto atto per giocare la sua grande carta. Ma la sua è stata un’Elisabetta giovane, bellissima, piagata e vocalmente impeccabile. Tu che le vanità è stato un momento di grande commozione, anch’esso salutato da un applauso trionfale.
Roberto Scandiuzzi, Filippo II, ha cominciato non bene, con qualche muggito e accenti rudi e poco convincenti, ma è rientrato ben presto nei ranghi e ha fatto un Filippo duro e giovanile, di grande presenza vocale e scenica.
Fabio Armiliato ha dato una prova efficiente, forse non molto approfondita dal punto di vista dell’interpretazione (la fragilità nervosa del personaggio latitava) ma vocalmente sicura e teatralmente disinvolta. Armiliato è un cantante affidabile, che non si strozza negli acuti e recita e interpreta sia col corpo che con la voce. Bisogna dargli atto che senza essere un fuoriclasse ha saputo dare a quest’immensa opera un protagonista efficace.
Meno significativo il Posa dell’ormai onnipresente Carlo Guelfi, statico sia fisicamente che vocalmente e con una discutibilissima e fastidiosa propensione a mettere la voce nel naso. Il timbro, poi, è comune e poco si addice al nobilissimo personaggio di Rodrigo. Gli va dato atto di aver eseguito i molti trilli previsti dalla partitura, o almeno di averci provato. La resa del personaggio, pero, era incompleta.
Nel complesso, comunque, si è trattato di una serata memorabile, nel corso della quale l’immenso affresco verdiano ha ricevuto una realizzazione fra le migliori oggi possibili.
Riccardo Domenichini
Don Carlo
will be broadcast by Radio 3 on 16 December at 1800 GMT. Click *here* for details.